mercoledì 4 gennaio 2012

Mutazione nella s. Ogden

Da Spigolature 4/2011

Nature 2011;478:17. Secrets of the human genome disclosed. Should people be told about any nasty surprises that scientists discover in their DNA during research projects? Partiamo da un caso reale, l’esperienza è un’ottima maestra: in un progetto di ricerca per individuare il gene di una malattia XLR letale (s. Ogden) viene individuata la mutazione ritenuta responsabile in una famiglia con più membri affetti; in questa famiglia c’è una gravida in 4° mese con feto maschio a rischio. Ma la mutazione non può essere proposta come test prenatale perché non è il risultato di un laboratorio certificato. Il bambino nasce, è affetto, e muore nella stessa settimana in cui è pubblicata la ricerca.

Commento anonimo:

Leggo la conclusione della storia con preoccupazione, ma credo di segno opposto. Se la diagnosi prenatale fosse stata disponibile, quale sarebbe stato l’esito? Un aborto. Oppure la scelta dei genitori di proseguire la gravidanza e infine, comunque, un esito infausto per la famiglia. Per il medico, invece, la soddisfazione di una diagnosi – clinicamente inutile, ma che gli avrebbe fatto fare un figurone.

Meglio far nascere un feto senza diagnosi o abortire un feto con diagnosi sbagliata?

Il punto non è la certificazione del laboratorio. Il punto è la validità clinica del test, ovvero: la probabilità che il test riveli la malattia – non la mutazione, la malattia. Nessuna variante appena scoperta può garantire questa validità. Vogliamo ricordare qualche esempio di gene malattia poi smentito, o di variante associata a malattia poi rivelatasi non patogenetica?

Translational medicine: il percorso dal banco al letto è un percorso di traduzione, appunto. La lingua del banco di ricerca non si può applicare alla clinica senza un’accurata traduzione, pena difetti di comprensione. Lost in translation.

Risposta al commento:

1. Veniamo al caso concreto: due famiglie non correlate, studiate separatamente da due diversi gruppi di ricerca che all’insaputa l’uno dall’altro hanno trovato la stessa mutazione associata a una nuova malattia genetica dismorfico-malformativa a trasmissione XLR (5 maschi affetti nella prima famiglia, 3 maschi affetti nella seconda, mortalità entro i 15 mesi).

Hanno usato per la sua identificazione exom sequencing, con conferma Sanger, e l’analisi di segregazione dell’aplotipo. La mutazione è una missenso del gene NAA10 che codifica una subunità catalitica di una principale acetiltrasferasi N-terminale. La mutazione è assente nei maschi non affetti di entrambe le famiglie e non è stata trovata in vari database dei controlli. Le due famiglie non sono correlate e non c’è evidenza di trasmissione per discesa. L’aminoacido sostituito e gli aminoacidi adiacenti sono conservati nell’evoluzione e il test di acetilazione mostra funzione biochimica del mutante significativamente ridotta.

Mi sembra che ci fossero tutti gli elementi per ritenere la missenso causa della malattia.

Il commento su Nature sottolinea l’aspetto formale della risposta del test (non certificazione del lab.). Nessuno si è posto il problema di inattendibilità del risultato.

2. Dal bancone di lab. al letto del malato: si suggerisce cautela. Giusto, ma nel caso in questione non ci sono dubbi. Si sottolineano le difficoltà. Giusto, ma questo è proprio il compito del Genetista Clinico, che è anche quello, importante, di ridurre al minimo il tempo tra scoperta scientifica e sua applicazione clinica. Con cautela, ma senza aspettare che la mutazione venga confermata in altre famiglie, evento che potrebbe accadere dopo anni per la rarità della sindrome. E nel frattempo ci teniamo per noi l’informazione? E se succede abbiamo assicurato il ricontatto? E chi lo fa?

DOMANDE:

- In questo caso avendo a disposizione la risposta del ricercatore (abbiamo trovato la mutazione che riteniamo patogena) e sapendo che c’è una gravida a rischio di figlio con quella malattia voi che avreste fatto?

- Avete avuto situazioni simili (mutazione trovata nel corso di una ricerca a cui avete collaborato) e come vi siete comportati?

2 commenti:

  1. A me parrebbe "clinicamente utile", nonché doveroso, comunicare alla paziente interessata le informazioni che mi sono giunte, spiegando gli eventuali limiti dell'informazione di cui disponiamo. Giustissima la cautela, ma in questo caso specifico (ed in altri casi analoghi) l'informazione può fare la differenza per la scelta personale della coppia nei confronti di quella gravidanza (o della scelta di avere figli).

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  2. Direi che non ci sono grossi dubbi sulla utilità di fornire la notizia, in considerazione della accuratezza delle indagini eseguite per una conferma sulla patogeneticità della mutazione.
    In ogni caso il nostro compito è di informare, ed avremmo dovuto informare anche della ipotesi che la mutazione non fosse patogenetica (remota possibilità); se poi la coppia avesse deciso di terminare la gravidanza, allora lo avrebbe fatto consapevolmente ed avrebbe accettato anche il rischio di terminare una gravidanza sana.
    Consideriamo che l'errore può esistere anche in consulenze "tranquille" come nella s. Down. Mi chiedo piuttosto cosa abbia provato quella coppia non informata del proprio rischio, ad affrontare impreparata il proprio lutto, che magari avrebbe pure portato avanti quella gravidanza, ma cosciente che il proprio figlio sarebbe morto nel giro di poco tempo. Il problema reale in tutte le consulenze è capire se le coppie vogliono essere informate oppure no. Il nostro mestiere è difficile proprio per questo. Non perchè dobbiamo decidere chi informare e chi no e quale notizia fare passare e quale no (stiamo sfiorando un limite pericoloso che è quello della discrezionalità nel fornire le informazioni),
    attenzione perchè diventeremmo direttivi (se pure al contrario). La consulenza, soprattutto quella prenatale, è difficile perchè dobbiamo comprendere cosa e quanto i futuri genitori sono in grado di percepire, sopportare ed affrontare ed anche nella difficoltà estrema di una comunicazione non perdere di vista quale sia il loro reale interesse. Una coppia potrebbe non tollerare un rischio
    bassissimo e parimenti un' altra accettare persino un rischio di malattia del 50%.
    Mi piacerebbe sapere se quella coppia sia stata informata almeno del fatto di essere a rischio (presumo di si) e del fatto che il test non si poteva proporre perchè non certificato da lab diagnostico.
    La cautela è sempre obbligatoria a letto del paziente, siamo tutti d'accordo, ma l'attenzione nei confronti del paziente aiuta a supera a mio parere a volte tale freno se pure di poco. Credo che si possa essere cauti anche pensando a quale potrà essere il percorso dopo la comunicazione o non comunicazione di una diagnosi, a ciò che i nostri pazienti provano a come possano arrivare ad
    un evento infausto (la morte prima o dopo aborto o decesso naturale) del proprio figlio ed al loro diritto di scegliere per se stessi e per il proprio feto.
    Sono convinta che una coppia informata (bene) possa persino decidere di proseguire la gravidanza di un figlio affetto, ma nessuno ha il diritto di negare loro una informazione potenzialmente rilevante per la loro salute come individui e come nucleo familiare (e non mi riferisco alla esclusiva salute fisica). Probabilmente sono uscita fuori tema ma penso che l'articolo sfiori questo
    punto dolente e che induca a riflettere sul mestiere del medico come persona che si prende cura piuttosto che di persona che cura. Ma qui stiamo già su di un altro argomento su quale sia realmente il nostro posto, su come intendiamo il nostro mestiere (un servizio o una nostra affermazione professionale), su quale sia il nostro rapporto con noi stessi e verso gli altri (guardiamo sempre con gli stessi occhi o siamo in grado di guardare anche con gli occhi degli altri?).
    Manuela

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